Gramsci nel
mondo, oggi
Guido Liguori
È
diventato frequente affermare oggi, spesso con provocatoria esagerazione, che Gramsci è più studiato e usato
all'estero che in Italia. È stato soprattutto il boom degli studi
«culturali» e «postcoloniali» e il loro assumere Gramsci come fondamentale punto di riferimento a causare
l'impennata dei titoli (ormai quasi 17mila) della Bibliografia gramsciana, nel cui ambito la percentuale di contributi
in lingua inglese tende costantemente a crescere, seconda già da tempo solo a quella degli scritti in lingua italiana. Se
si va al di là del semplice dato quantitativo, quali
sono le tematiche gramsciane che più hanno fortuna al
di fuori del nostro paese e che tipi di usi si fanno oggi del lascito
teorico del comunista sardo? Un contributo di conoscenza in questa direzione è
dato da una interessante pubblicazione della
Fondazione Gramsci, Studi gramsciani
nel mondo 2000-2005, a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru (il Mulino, 2007, pp. 345, euro 24,50). Si
tratta del primo di una serie di annali che si
prefigge di offrire al pubblico italiano una rassegna
dei principali saggi su Gramsci nel mondo, per
allargarne la conoscenza al di là della schiera ristretta degli specialisti.
Senza dire che un Comitato scientifico internazionale quale quello
che presiede alla pubblicazione - con studiosi che operano in Francia e in
Giappone, negli Stati Uniti e in Russia, in Messico e in Germania, oltre che in
Italia - può diventare un «intellettuale collettivo» in grado di monitorare
l'evolversi degli studi su scala internazionale e operare una selezione di alta
qualità da offrire al pubblico italiano. L'osservazione che si può fare è anzi
quella della necessità di allargare lo sguardo a
esponenti di altre aree geoculturali: l'assenza dal
Comitato e dal volume del rappresentante di una realtà come quella brasiliana o
di un intero Stato-continente come l'Australia sono
pecche alle quali non sarà difficile porre rimedio.
Il
volume in questione è composto da undici saggi, scelti
probabilmente secondo un duplice criterio: alcuni di essi hanno soprattutto un
valore di rappresentatività dei contesti culturali e politici dai quali
provengono; altri invece sono contributi specialistici di indubbio interesse,
pur se ugualmente connessi al loro retroterra culturale. Sul primo versante,
gli scritti di Michaelle Browers sui concetti società civile e di intellettuale organico o tradizionale nel mondo arabo, di
Markus Bouillon
sul declino del processo di pace in Medio Oriente esaminato alla luce della
teoria delle relazioni internazionali di derivazione gramsciana
propugnata da Robert Cox,
di Rupe Simms sulla Black Theology
in Sud Africa e di Claire Cutler sulla concezione gramsciana
del diritto a fronte del capitalismo globale hanno un valore soprattutto
documentario, pur scontando il fatto che si tratta di autori che operano in
università del mondo anglofono. Il campo delle
relazioni internazionali a cui questi studi sono in gran
parte dedicati costituisce un altro dei settori dove più rilevante è la
presenza di concetti gramsciani.
Indubbiamente
interessante, anche se un po' a sé, lo scritto di Amartya Sen sui rapporti di Sraffa con Gramsci e con Wittgenstein: il premio Nobel ricorda come Sraffa abbia influenzato la svolta teorica del filosofo
austriaco tra il Tractatus e le Ricerche (il
fatto era noto), ma anche mette in rilievo come le idee sul linguaggio dell'economista
italiano fossero quelle del suo amico Gramsci. Tesi
affascinante anche se un po' aleatoria. Certo la collocazione
di Gramsci in un consesso di tale livello - tra Wittgenstein e Sraffa - già di
per sé aiuta a spiegarne la statura e l'enorme influenza del lascito
intellettuale. Altri autori presenti nel volume sono nomi molto noti nel
panorama degli studi gramsciani - da Joseph Buttigieg,
curatore dell'edizione inglese dei Notebooks
presso la Columbia University Press, a Juan Carlos Portantiero,
da poco scomparso, antesignano con Aricó (e con
Rodolfo Mondolfo!) degli studi gramsciani
in Argentina; da Dora Kanoussi, che in Messico
è riuscita a portare a completamento la prima
traduzione in spagnolo dell'edizione critica dei Quaderni e poi le Lettere
dal carcere, al newyorkese Benedetto Fontana,
uno dei migliori studiosi di teoria politica in senso classico che si occupano
di Gramsci. Accanto ad essi,
alcuni dei più promettenti studiosi delle nuove leve, quali lo statunitense Marcus Green o l'inglese Adam Morton. Il ventaglio dei temi è ovviamente molto ampio:
si va dal Gramsci lettore di Machiavelli di Portantiero al
Filosofo democratico: retorica come egemonia di Fontana (con un elegante
excursus nella filosofia greca), dalla Introduzione
alle Lettere della Kanoussi alla teoria della
nascita dello Stato moderno tentata da Morton con una
strumentazione marxiana e gramsciana. Sono però gli
scritti di Buttigieg e di Green a riportarci
maggiormente alle considerazioni dalle quali siamo partiti: quali sono i
concetti gramsciani oggi più usati nel mondo? I saggi
dei due autori sono imperniati sulle due architravi di
questa fortuna, che essi sottopongono ad argomentata critica, opponendosi dall'interno
al loro uso distorto: il concetto di società civile e quello di subalterno.
Buttigieg critica la concezione di società civile
attribuita a Gramsci prevalente nel mondo anglofono, fondata sulla concezione binaria Stato/non Stato
tipica della tradizione liberale ma - sottolinea
giustamente Buttigieg - estranea a Gramsci, che col concetto di «Stato integrale» vede invece
come un unico filo di potere attraversi e unisca dialetticamente
entrambi. Non solo, Buttigieg mostra come l'analisi gramsciana trovi una riprova proprio negli States di oggi, dove le
forze conservatrici agiscono per formare l'opinione pubblica nella società
civile in tutt'uno con la loro azione nelle
amministrazioni repubblicane. Analogamente fa Green per il concetto molto
diffuso di «subalterno», che viene da Gramsci e che grande fortuna ha avuto a partire dall'uso
che ne ha fatto in India la scuola che annovera Ranajit
Guha e Gayatri Spivak. Proprio con la Spivak
polemizza l'autore fin dal titolo inglese del saggio - purtroppo non conservato
nella traduzione italiana - Gramsci cannot speak, contrapposto al
celebre scritto della Spivak Can the subaltern speak? L'accusa che
egli rivolge alla celebre traduttrice in inglese di Derrida è quella di aver stravolto il concetto gramsciano, astraendolo dal contesto di lotta per
l'egemonia in cui era immesso. Green ci fa capire come Gramsci
sia stato letto in modo incompleto, e spesso
frainteso, da quegli studiosi che non conoscono l'italiano.
Insomma,
anche il panorama degli studi gramsciani fuori
d'Italia è estremamente variegato. Non è solo nel
nostro paese che è viva l'attenzione al testo e al
contesto storico-culturale, anche se da noi gli studi
gramsciani hanno fortemente privilegiato questo
versante. Non necessariamenti questi «due mondi»
devono essere intesi come contrapposti: il reciproco ascolto è anzi necessario
perché si impari da una parte a usare Gramsci senza tradirlo, e dall'altra a studiare Gramsci senza farne un fossile, un «classico» del tutto
estraneo alla politica e alla lotta per l'egemonia che egli non solo teorizzò,
ma cercò anche sempre di portare avanti in prima persona.
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