Il Gramsci
di Jaar
Guido Liguori - Alessandro Errico
Sono state esposte di recente a Roma due installazioni di Alfredo Jaar, artista cileno da
oltre vent’anni trasferitosi a New York. Se ne parla
in questo luogo perché esse fanno parte di una trilogia dell’artista dedicata
ad Antonio Gramsci. La prima parte, Cella
infinita, è stata esposta a Milano nel 2004. La seconda, Che
cento fiori sboccino, a Roma presso il MACRO (Museo d’Arte Contemporanea
Roma). La terza e ultima parte, Le ceneri di Gramsci, sempre a Roma, presso la Galleria Miscetti, a via delle Mantellate.
Il MACRO ha anche prodotto un
catalogo, Alfredo Jaar (Mondadori Electa, pp. 120, euro 29), utile per capire l’artista e il
suo interesse per Gramsci. Esso contiene una breve
presentazione di Jaar stesso (che definisce Gramsci «uno dei più straordinari uomini di pensiero del XX secolo... uno dei più acuti e illuminati
intellettuali dei nostri tempi bui») e scritti di Gianni Vattimo
(L’arte oltre l’estetica), di Pier Paolo Pasolini (la celebre Le
ceneri di Gramsci per l’occasione rieditata, in italiano e in inglese, come del resto tutti i
testi del volume), di Jeff Derksen
e Neil Smith (Una
geografia del difficile, che tenta di inquadrare l’interesse di Jaar per Gramsci anche in riferimento
ai cultural studies e soprattutto a Stuart Hall e agli studi «sul postcolonialismo
e della subalternità»), di Dabrila Denegri (Il teatro del dubbio). Ma soprattutto il
catalogo contiene molte foto delle opere di Jaar, gramsciane e non, nonché un lavoro
fotografico precedente alla trilogia, intitolato Alla ricerca di Gramsci, 36 scatti che Denegri
definisce «una sorta di foto-diario che annota una giornata dell’artista
trascorsa a Roma nel marzo 2004», dalla visita al Cimitero degli Inglesi dove
riposano le ceneri di Gramsci («noia patrizia ti è
intorno», scriveva Pasolini), all’incontro con una grande manifestazione per la
pace, a quello con Toni Negri, alle belle foto di e dal Tevere, all’altezza
dell’Isola tiberina.
Le foto del catalogo permettono anche
di ammirare Cella infinita, gelido alternarsi di sbarre di metallo,
illuminazioni e ambienti da supercarcere contemporaneo con a
una parete affissa la serigrafia 20 anni, un rettangolo rosso con tre
righe bianche, la drammatica scritta «20 anni/4 mesi/5 giorni», l’entità della
pena a cui il Tribunale fascista condannò il comunista sardo.
Le ceneri di Gramsci sono una installazione
appositamente concepita da Jaar per lo studio Miscetti in via delle Mantellate 14 a Roma (l’esposizione,
inaugurata da un vernissage l’8 giugno, terminerà il 5 novembre). Qui
sono la fotografia (l’immagine metaforica dell’esplosione di una stella), il
movimento (un meccanismo che ogni 6 minuti fa scendere di livello l’immagine in
un ambiente perimetrato di specchi che la rifrange
all’infinito) e l’architettura (una struttura-modello protoindustriale
che dovrebbe idealmente contenere l’evolversi dinamico del processo metaforico)
a definire concettualmente l’opera. L’immagine perde quindi la sua staticità e
viene a configurare, attraverso il gioco degli specchi, tutta una serie di
rimandi (fin troppo) evidentemente allusivi a quegli
«eserciti di parole» (i Quaderni del carcere) che dalle carceri fasciste
deflagrano superando i confini spazio-temporali e s’impongono in maniera folgorante,
decisi a perseverare nel tempo. Riferimento fondamentale, oltre al Pasolini del
titolo, è senz’altro il poeta che lo stesso Jaar cita
nell’introduzione al catalogo: «Di fronte a tanto fulgore posso solo citare
Giuseppe Ungaretti, uno dei miei poeti preferiti: “m’illumino / d’immenso”» (poeta, Ungaretti,
in verità non molto amato da Gramsci che nelle sue
note lo metteva sarcasticamente a capo di una «conventicola di teste vuote» e
lo definiva un mero «costruttore di concettini»: Q. 23, p. 2190).
Ma veniamo all’istallazione del
MACRO, Che cento fiori sboccino, senz’altro la più evocativa delle tre:
in una sala scarsamente illuminata 25 aiuole ricavate in una pavimentazione di
zinco contengono quattro piantine ciascuna, soggette alla ventilazione ostile
(le file più vicine vengono brutalmente piegate dalla
furia del “vento”) di nove ventole, sopra le quali viene proiettato un filmato
di nove ore: l’inquadratura è fissa sulla tomba di Gramsci
nel corso di una giornata della primavera 2005, mentre ignari visitatori
interrompono brevemente la solitudine del luogo per rendere un sia pur fugace
omaggio ai resti del “rifondatore” del Pci. Tornano
alla mente alcuni film usciti dalla factory newyorkese di Andy Wahrol negli anni sessanta: la telecamera fissa, il tentativo
di ignorare il tempo cinematografico per restituire semplicemente lo scorrere
del tempo della vita...
I «cento fiori» naturalmente
rimandano a Mao. Il «movimento dei cento fiori» fu
lanciato negli anni cinquanta in Cina a significare la positività della
diversificazione (e della lotta) culturale: «Che cento fiori
sboccino: che cento scuole di pensiero si confrontino». Gramsci e Mao,
dunque, messi in relazione da Jaar. Con la importante presenza-mediazione di Pasolini. Suggestioni
culturali diverse, amalgamate dallo sguardo dell’artista, per dare vita a un omaggio a Gramsci che ne
testimonia – per vie inusuali anche se non sconosciute: quelle dell’arte e
dell’arte contemporanea – la presenza e la rilevanza nel «mondo grande e
terribile» contemporaneo e nell’orizzonte culturale e politico di chi, anche
attraverso i cento fiori della creatività, intende opporsi al «pensiero unico».
Perché non replicare questa installazione – e forse la Trilogia tutta – a Turi di
Bari, dove la matricola 7047 trascorse buona parte del suo tempo tra la
sentenza e la morte?